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MONS. GIANNI AMBROSIO ALLE NOSTRE COMUNITA' NEOCATECUMENALI
Inserito il 11 giugno 2008 alle 00:05:40 da angelipc.

S.E. Rev.ma Mons. GIANNI AMBROSIO , Vescovo di PIACENZA-BOBBIO ha incontrato martedì 3 giugno 2008, nella chiesa parrocchiale i componenti delle comunità neocatecumenali. Il Parroco, don Pietro Cesena, ha illustrato, con l'aiuto di un cartellone, il percorso del neocatecumenato post-battesimale e partendo dalla quinta comunità (nata nella quaresima di quest'anno) sono state date alcune esperienze personali. Erano presenti anche diversi bambini. Dopo la proclamazione del Vangelo del giorno il Vescovo ha proferito il seguente discorso:

Discorso alla presentazione del Cammino delle cinque Comunità Neocatecumenali di Borgotrebbia




Permettetemi, prima di commentare il brano del Vangelo che è stato proclamato, di dire a voce alta alcuni sentimenti presenti nel mio cuore. Questo non per mettere in secondo luogo la Parola del Signore. Forse è proprio la parola del Signore che abbiamo ascoltato, insieme all’ascolto delle vostre esperienze, a suggerirmi questi sentimenti che desidero comunicare anche a voi, in stile molto familiare.


Innanzitutto il primo pensiero va a questi bambini: sono qui, davanti all’altare, e sono tanti. E poi sono così bravi. Mi chiedo come abbiano potuto stare così tranquilli per tutto questo tempo. Ma al di là di questo, il mio cuore è pieno di gioia nel vedere tutti questi bimbi. Perché, vedendoli, mi sono detto: c’è un futuro per le famiglie, c’è un futuro per questa parrocchia, c’è un futuro per la Chiesa e per la società italiana. Ecco, mi è parso bello esprimere ad alta voce questo mio sentimento di gioia e mi pare giusto dire a voi, cari genitori, tutta la mia gratitudine: grazie di cuore per il dono di questi bimbi.


Il secondo pensiero è il seguente. Ho sentito dire in diverse esperienze: “Sono molto lontano, sono distante dal Signore”. È vero, siamo tutti distanti da Dio, siamo lontanissimi da una vita buona e santa. Ma questo, cari amici, non è poi così importante: ciò che è veramente importante è che, al di là della nostra miseria, c’è la vicinanza del Signore. Sì, al di là della nostra miseria, c’è l’Amore che si è chinato su di noi, anzi un Amore si china continuamente su di noi. È questo ‑ al di là dei nostri peccati, della nostre sofferenze e delle tante oscurità – che allieta il cuore dell’uomo: siamo invitati prima di tutto a rallegrarci di questo chinarsi di Dio su di noi. Perché noi siamo fatti per lui, e nel momento in cui percepiamo questo Amore che si china, nel momento in cui ci rendiamo conto che Dio ci offre la sua mano amica, allora la nostra vita cambia.


Per questo abbiamo bisogno della mano amica anche tra di noi, come segno concreto di quell’Amore che si china su di noi. La dimensione della comunità – il suo significato, la sua importanza, il suo valore ‑ è fondamentale per la vita cristiana. Lo avete evidenziato molto bene nei vostri interventi. Non si può essere credenti da soli. Ci possono essere gli eremiti che vivono nella totale solitudine, ci sono effettivamente e hanno il diritto di esserci. Ma anche l’eremita più lontano e più distante – che vive in ipotesi sulla cima del Monte Bianco o dell’Everest ‑, ha bisogno del linguaggio dei fratelli per parlare con Dio, ha bisogno della comunità per essere capace di stare in solitudine davanti a Dio. Solo grazie ai fratelli nella fede e alla comunità credente l’eremita riesce a comunicare con Dio e con se stesso.


Un po’ come questi bambini (ma non dimentichiamo che siamo stati tutti bambini, e poi non dimentichiamo che per seguire Gesù dobbiamo diventare come bambini): quando erano piccoli e avevano mal di pancia, piangevano ma non sapevano cosa dire. Quando vivevano un’esperienza di gioia, ridevano e basta, senza sapere dire il motivo della gioia. Non potevano esprimere il sentimento di dolore e di gioia. Lo hanno potuto esprimere solo grazie alla parola che la mamma ha messo sulle loro labbra. Altrimenti il sentimento sarebbe rimato un qualche cosa di indecifrabile, il dolore non sarebbe stato riconosciuto come tale, la gioia non sarebbe stata individuata nella sua origine e nelle sue motivazioni. Da soli siamo incapaci di esprimerci, abbiamo sempre bisogno di qualcuno che ci metta la parola giusta sulle labbra e soprattutto sul cuore. E se questo vale per la vita quotidiana, vale anche – e ancor più ‑ per la nostra vita cristiana: abbiamo bisogno di una ‘madre’ che ci offra la parola giusta.


Questa è la missione della comunità cristiana, a cominciare dalla piccola comunità della famiglia per arrivare alla comunità più ampia rappresentata dalla comunità cui appartenete e poi dalla parrocchia e poi dalla Chiesa tutta. È una grazia bellissima avere padri, madri, fratelli e sorelle che svolgono quella funzione ‘materna’ imprescindibile senza la quale noi non sappiamo chi siamo e siamo incapaci di dire ciò che vorremmo dire: ‘ ti amo ’. Dirlo all’altro che ci è accanto, dirlo all’Altro che non è solo accanto ma è dentro di noi, il Signore nostro Dio.


Ecco questi sono i sentimenti che si sono affacciati al mio cuore dopo avere ascoltato queste vostre esperienze. Non posso però trascurare questo manifesto che sta sopra l’altare e che ci presenta le tappe del cammino. Sapete che mi ha fatto venire in mente il mio motto episcopale “Vestigia Christi sequentes”, seguendo insieme le orme di Cristo? Il manifesto mette in bella evidenza l’idea del cammino. Ma un cammino che non è solo orizzontale, come lo è il manifesto: si tratta di un cammino che è anche verticale. È una salita che va verso l’alto…, ma in questa salita siamo condotti per mano dagli amici della comunità e soprattutto dallo Spirito Santo.


Mi limito a qualche cenno alla pagina del Vangelo. È infatti una pagina molto nota. Eppure le cose note, spesso e volentieri, sono anche motivo di confusione più che di chiarezza, perché la risposta di Gesù ‑ «Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio» (Mc 12, 17) ‑, non è così semplice come spesso viene presentata.


Diciamo innanzitutto che è davvero triste avvicinarsi a Gesù e interrogarlo solo per metterlo alla prova, per ingannarlo dopo averlo adulato. Così fanno questi farisei e erodiani. Ma così facciamo tutti noi: ricordiamo che il vangelo racconta di noi, di ciascuno di noi. Il vangelo è la nostra storia, è sempre attuale, e noi non siamo solo ascoltatori o spettatori ma attori. Ecco, questi farisei e questi erodiani (amici di Erode) per cogliere in fallo Gesù, e quindi per smascheralo di fronte agli altri, si avvicinano a lui con l’inganno e con l’adulazione. “Maestro, sappiamo che sei veritiero, che non guardi in faccia a nessuno, che non ti curi di nessuno, che insegni la via di Dio” (cf Mc 12, 14).


Pensate: avvicinarsi a Gesù, riconoscerlo come maestro ‑ “insegni la via di Dio!”, solo per metterlo alla prova, per ingannarlo. Davvero è triste questo modo di comportarsi. Potevano, questi farisei e erodiani, cercarsi loro la risposta se pagare o meno il tributo. Perché avvicinarsi a colui che in qualche modo riconoscono come maestro di verità per metterlo alla prova e per deriderlo?


Al di là delle intenzioni così poco raccomandabili, ecco la domanda: «È lecito o no dare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?» (Mc 12, 14c). Non è una questione di poco conto: è questione seria. Ma non facciamo come i farisei e gli erodiani: servirci della risposta di Gesù per giustificare le nostre posizioni, per affermare la laicità, per dividere il mondo in due parti…


Intendiamoci bene: il vangelo non è la ricetta pronta per risolvere i nostri problemi di oggi. Cerchiamo piuttosto di capire il problema di allora: il problema era l’occupazione romana, la non libertà del popolo. È il problema di allora, ma è il problema di sempre: la libertà è il problema dell’uomo, nel caso rappresentato dalla figura dell’imperatore Cesare che impedisce la libertà del popolo.


La risposta di Gesù è un invito alla verità, alla verità interiore anzitutto. Certamente l’occupazione romana è un segno negativo, e occorre prenderne atto. Ma c’è una occupazione del male nel cuore dell’uomo che è ancora più drammatica dell’occupazione di tipo politico attuata dalle truppe romane. Si tratta di «dare a Dio ciò che è di Dio», cioè di riconoscere il volto di Dio in ciascuno di noi per essere liberati, perché lui non è il padrone, lui è il Padre, e noi non siamo servi o schiavi ma siamo figli. Riconoscere che siamo figli vuole dire essere e sentirsi liberati dal male. Poi, forti di questa libertà, troveremo il modo di confrontarci con l’imperatore di turno, di confrontarci per essere davvero liberati anche dal punto di vista politico, sociale, culturale. Perché anche questo è importante. Ma prima di tutto e fondamentalmente ciò che è decisivo: è accogliere Dio come Dio, così come Gesù lo rivela, e cioè come Padre. È decisivo essere e sentirci figli. “Dare a Dio ciò che è di Dio” vuol dire dare a Dio innanzitutto noi stessi: noi siamo di Dio, e poi tutta la realtà, tutta la storia, tutto il creato, tutto proviene da Dio. Riconoscere questo vuole dire recuperare la nostra identità, perché riconosciamo il Padre e nel momento in cui riconosciamo il Padre ci sentiamo figli e viviamo insieme come fratelli.


Ecco allora il cammino della vera autentica e gioiosa liberazione, che non annulla tutte le difficoltà della vita, però ti dà l’indirizzo, ti offre l’orientamento, ti fa sentire che, al di là di tante pene e sofferenze, c’è un mistero di gioia perché abbiamo scoperto il nostro volto scoprendo il volto di Dio come nostro Padre.


Termina con queste parole il brano del Vangelo: «rimasero ammirati di lui» (Mc 12, 17). Anche noi vogliamo davvero esprimere tutta la nostra ammirazione per questo Maestro che è il nostro salvatore e il redentore, perché ci ‘libera’ dalla falsità, dalla ipocrisia e ci aiuta a camminare su quella strada che è la strada della verità e della vita.


Possiamo fare nostra quella frase bella e vera che gli erodiani e i farisei rivolgono a Gesù: tu «insegni la via di Dio» (Mc 12, 14b) Volevano ingannare Gesù e tendergli un trabocchetto ma fanno un’affermazione stupenda: anche da un cuore cattivo può venir fuori qualche cosa di buono: sì, Gesù ci «insegna la via di Dio» (Mc 12, 14b). Vogliamo davvero ringraziare il Signore Gesù perché anche stasera ci ha insegnato la via di Dio.



03/06/2008S.E. Rev.ma Mons. GIANNI AMBROSIO
 
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